Nel diario di Nina Lugovskaya l'esatta dimensione dell'Holodomor in pieno svolgimento
Già nel 1933 un'adolescente sovietica quantificava in "cinque milioni" le vittime della carestia terrorista in Ucraina
Tra gli storici del comunismo è conosciuta come l’Anna Frank dell’Unione Sovietica ma è praticamente ignota al grande pubblico, a differenza della sua omologa tedesca. Eppure Nina comincia a scrivere dieci anni prima di Anna, all’epoca del consolidamento del potere staliniano che si avvia verso il Grande Terrore. Hitler non è ancora diventato cancelliere quando, nel 1932, la tredicenne moscovita si mette a raccontare la sua vita quotidiana in pieno trionfo del bolscevismo. Cinque anni dopo - all’inizio del fatidico 1937 - sarà deportata nei campi di lavoro della Kolyma insieme alla sua famiglia, proprio a causa del suo diario segreto.
Un segreto molto ben custodito, se è vero la sua testimonianza rimane inedita fino alla caduta dell’Unione Sovietica e alla conseguente apertura degli archivi del KGB (all’epoca dei fatti NKVD): i passaggi incriminati, le frasi che la condanneranno, risultano dettagliatamente evidenziati dai funzionari della polizia politica. Nel 2003 il diario viene dato alle stampe per la prima volta da un editore russo, in lingua inglese: si intitola The Diary of a Soviet Schoolgirl. Nina è già morta da dieci anni.
I ripetuti arresti del padre, un social-rivoluzionario di nome Sergei Rybin-Lugovskoi, segnano fin dall’infanzia la sua percezione della società socialista. Dal 1917 al 1935 Sergei entra ed esce di prigione almeno quattro volte, prima dell’esilio definitivo in Kazakhstan. Nei diari Nina scrive di tutto, dei compagni di scuola, dei ragazzi che le piacciono, delle persecuzioni del regime nei confronti di amici e conoscenti, della tragedia del genitore. Il suo è un racconto a tratti vivace e spensierato ma allo stesso tempo angosciato per la cappa di sospetto e delazione che il comunismo ha fatto calare sulla Russia. Nina sente che qualcosa di brutto sta per succedere anche a lei e alla sua famiglia: “All'improvviso (…) li prenderanno per caso - scrive riferendosi proprio ai suoi appunti - inciampando in parole oscene su Stalin. E finirà nelle mani delle spie. Lo leggeranno, rideranno del mio delirio d'amore”.
Il suo è un odio ben documentato e ben argomentato nei confronti di Stalin e del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, fondato sull’esperienza diretta di una giovane che sente di non poter vivere la sua vita ma rifiuta la logica del terrore e il conformismo sociale imposto del potere totalitario: “Le sue promesse, la sua dittatura, un feroce georgiano che ha paralizzato la Russia. Com'è possibile? La grande Russia, un grande popolo è caduto nelle mani di un mascalzone”; e ancora: “Bastardi bolscevichi! Non pensano affatto ai ragazzi, non pensano che anche noi siamo persone. (…) La minima manifestazione di spirito critico, il più lieve segnale di indipendenza o di libertà di pensiero vengono puniti implacabilmente”. Bastardi bolscevichi.
Ma le osservazioni forse più sorprendenti riguardano la carestia terrorista con cui Stalin e i suoi avevano deciso di punire i contadini ucraini per la loro resistenza alla collettivizzazione, una tragedia passata alla storia come Holodomor. Le dimensioni del genocidio, così a lungo nascoste all’opinione pubblica internazionale grazie soprattutto alla complicità di una stampa compiacente con il regime sovietico, erano già note - nonostante la censura e la propaganda - ad una semplice adolescente moscovita nell’agosto del 1933: “Succedono cose strane in Russia: fame, cannibalismo… quelli che arrivano dalle province raccontano storie bizzarre. Dicono che non hanno il tempo di rimuovere i cadaveri dalle strade (…). Dappertutto rapine e banditismo. E dell’Ucraina, questa fabbrica di grano, cosa resta? È diventata irriconoscibile”. L’11 dicembre 1934 Nina riferisce di una violenta discussione politica con le sorelle (anch’esse vittime della successiva repressione), durante la quale rinfaccia loro “i cinque milioni di morti in Ucraina”. 1934. Cent’anni dopo, da noi, c’è chi ancora nega il genocidio.
Il 4 gennaio 1937 il suo diario viene confiscato dall’NKVD durante una retata nell’appartamento di famiglia. Sulla base delle “prove” rinvenute nei suoi scritti, all’inizio di marzo per lei, sua madre e le sue sorelle si aprono le porte del Gulag. Rimane 5 anni alla Kolyma, la prigione di ghiaccio, ma sopravvive. Nel 1942 è rilasciata ma costretta ad altri 7 di esilio nella regione artica. A Magadan incontra e sposa Viktor Templin, artista, anche lui reduce dai lavori forzati. Comincia a dipingere e, quando insieme al marito torna alla “vita civile”, tenta di reinserirsi nella società sovietica. Viene “riabilitata” nel 1963, in seguito a una petizione di grazia diretta a Kruschev in persona. Dal 1977 - in piena era Brezhnev - diventa membro dell’Unione degli Artisti, e i suoi quadri vengono esposti al pubblico. Muore il 27 dicembre 1993, due anni dopo la fine di quel carcere di popoli chiamato Unione Sovietica.
La sua testimonianza è oggi tradotta in diverse lingue, tra cui l’italiano.
La sua voce, come quella di Anna Frank, smaschera la barbarie totalitaria e i suoi complici ad ogni latitudine.